Dalle fronde di un salice
    (ovvero, da dove comincia un cesto)
    
    C’era una volta, e c’è ancora, un salice
      bianco: 
     è solo parente del salice piangente, 
     la sua chioma è spavalda e punta in alto, 
     col colore e il portamento della fiamma. 
     La pianta, che qui chiamano vincio, dà i
      suoi figli migliori, 
     rami giovani e diritti, rami maschi, si usa
      dire, 
     a chi va a prenderli quando le fa meno male,
    
     cioè quando dorme, nel letto delle sue
      foglie cadute, in inverno. 
     In un giorno asciutto di luna calante, non
      verserà una lacrima, 
     e anzi, in primavera, partorirà più figli di
      quelli che le furon tolti. 
     Questi rami van legati in fasci e seccati di
      ogni linfa, 
     in piedi all’ombra e all’aria fresca, 
     per poi abbeverarli a nuova acqua 
     quando se ne vorrà far uso. 
     
    
     I rami più robusti sono scelti come
      portanti: 
     vanno separati dagli altri, messi in riga, 
     poi divisi in due schiere contrapposte: 
     i più forti trafiggono i più deboli, e
      insieme formano una croce. 
     
    
     Per fissare il centro della croce 
     si mettono due rami lunghi e sottili,
      chiamati tessitori, 
     a fargli quadrato intorno. 
     
    
     Tanti altri tessitori ora iniziano a girare
      dentro i bracci della croce, 
     intrecciandosi a coppie attorno ai portanti
      e piegandoli poco a poco. 
     I portanti si dispongono come raggi dal
      centro della croce, 
     ormai irriconoscibile perché è diventata un
      sole. 
     
    
     I tessitori vestono il sole 
     fino alla punta del suo raggio più corto, 
     fino a farlo diventare una luna. Una strana
      luna, 
     con una faccia liscia e una ispida di code e
      punte. 
     
    
     Una forbice fa la barba al rovescio della
      medaglia, 
     per trasformare la luna in un piatto. 
     Un piatto è il contenitore più aperto che ci
      sia: 
     il più semplice, che offre più che serbare,
    
     che mostra più che nascondere. 
     In questo piatto vi si porge un sapere 
     tramandato da millenni di mano in mano 
     da esseri umani d’ogni colore e lingua, 
     analfabeti e letterati, selvaggi e
      civilizzati, 
     liberi e schiavi. 
     Un sapere di uso quotidiano in tempo di
      pace. 
    
    Arianna Ancarani
tramedelbosco.it
    
    
	
    
    
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