Il cesto del terrore.
L'intreccio in un racconto di Patricia Highsmith



Capita raramente di incontrare dei testi letterari che parlano di cesteria, o più estesamente di intrecci vegetali. E quando capita, è sempre un'occasione per osservare quest'arte da un punto di vista inconsueto, diverso da quello di chi la pratica, e proprio per questo prezioso.

Il cesto del terrore, pubblicato per la prima volta nel 1981, è il terzo racconto del volume La casa nera, tradotto da Emanuela Turchetti ed edito da Sellerio. A differenza degli altri racconti del libro, e di gran parte della produzione di Highsmith, in questo caso si nota l'assenza di sangue e delitti: al centro della storia non è il cesto del titolo italiano, ma il fare cesti del titolo originale (The terror of basketweaving). Quale potrà mai essere, dunque, il terrore di far cesti?
Diane, la protagonista del racconto, durante una passeggiata sulla spiaggia trova un cesto di vimini e decide di portarlo a casa. Il cesto è un Moses basket, erroneamente tradotto “cesto di Mosè”, in realtà una culla per trasportare neonati, cioè una cesta ovale con manici. Siccome il cesto è sfasciato, Diane decide di ripararlo, e in breve tempo, con una certa abilità, ci riesce. È contenta del risultato, e soprattutto stupita della propria abilità, quando si sente “pervadere dal terrore”.
Senza svelare il resto della storia, per non guastare il piacere di chi la vorrà leggere, limiterò la mia riflessione entro i confini di questo terrore, che inizialmente pare ingiustificato e poco comprensibile.
Il turbamento di Diane, che si scopre capace di esercitare “l'arte del cestaio”, deriva dal fatto che è “un'arte assai primitiva”. Diane trova raccapricciante l'idea che quell'arte sia affiorata in lei e prova smarrimento di fronte a questa scoperta di sé, come se questa capacità fosse un elemento estraneo.
Forse è il luogo comune del primitivo “pretecnologico” a turbare la donna. Per una persona moderna e istruita come lei, primitivo è spesso sinonimo di rozzo, arretrato, in altre parole, distante da sé dal punto di vista evolutivo: “Aveva sempre ritenuto quest'arte un'occupazione buona giusto per i poveri di spirito. Non a caso era diventata l'attività per antonomasia che gli psichiatri raccomandavano alle persone con disturbi mentali”. Eppure ha visto le sue mani compiere gesti sapienti, misurati, tutt'altro che rozzi. Forse le è venuto il dubbio che per impiegare una tecnologia rudimentale occorra ancor più ingegno e accuratezza.
I nostri antenati conoscevano profondamente le tecnologie di cui disponevano, perché da esse dipendeva la loro sopravvivenza quotidiana. Il fare cesti, a questo proposito, è un esempio illuminante, perché è a tutt'oggi una tecnologia arcaica, il cui principale strumento sono le mani, tramandata senza grandi trasformazioni del processo produttivo.
Il tema centrale del racconto è il terrore dell'ignoto, un ignoto che appartiene al passato e si “incarna” in noi, nei gesti che ci accomunano ai nostri avi, gesti che si ripetono da millenni attraverso milioni di mani diverse. Highsmith lo svolge con maestria, presentando il disagio della “società del benessere” in una singolare prospettiva.

Arianna Ancarani


tramedelbosco.it






















































































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